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RIOT (DISOBBEDIENZA CIVILE)

Riot. Questa parola mi attraversa la mente, mentre su un vagone affollato della metropolitana mi dirigo verso l’ufficio. È una scritta che ricorre sui muri, la firma di un writer, probabilmente. La leggo ogni mattina sul bidone per la raccolta della carta che sta accanto all’edicola. Letteralmente, vuol dire tumulto, moto insurrezionale. Ho uno zaino conficcato tra le scapole. E non è il mio. Alla mia sinistra, due mamme discutono a volume altissimo del regalo da fare alla maestra. Una signora asiatica parla a macchinetta al marito, intercalando a volte con parole in italiano come dieta, chissà perché. Lui annuisce serio e riesce a infilare ogni tanto dei brevi commenti sottovoce, mentre le esternazioni della signora si susseguono, concitate. A destra, un uomo in giacca e cravatta, nel vapore dato da un centinaio di respiri e dall’assenza dell’aria condizionata, suda in silenzio e a giudicare dall’espressione probabilmente recita le sue preghiere, in modo da prepararsi a un eventuale, estremo passaggio. Davanti a noi, seduti, automi dalle fattezze disparate fanno scivolare le dita sugli inseparabili smartphone, chi a caccia delle ultime notizie, chi in conversazione a distanza con gli amici e chi impegnato in giochini stile Candy Crush Saga. Sono i peggiori, hanno lo sguardo vacuo, mentre digitano a più non posso, isolati da tutto, senza che la sparuta rappresentanza di umanità cosciente rimasta sul treno se ne faccia un cruccio, impegnata com’è ad attendere di raggiungere la propria fermata, pensando ai casi suoi. Sembra di stare in un underworld che, se anni fa poteva starsene al massimo acquattato nelle pagine di un fumetto di fantascienza, ora invade il nostro quotidiano prepotentemente. Un fenomeno che dà i brividi, se ce ne distacchiamo quanto basta per metterlo a fuoco. Dopo un periodo compreso tra l’infinito e quindici minuti, riemergo di nuovo alla luce del sole. La notte dei morti viventi è alle spalle, per quanto nessun luogo sia sicuro, purtroppo. Orde di zombie in stato di semi-incoscienza sciamano ovunque: sulle scale, sui marciapiedi, aggrappati a Whatsapp come se da un messaggino dipendesse la loro stessa vita. Brandelli di frasi attraversano il mio campo uditivo. “Secondo te, che c… ci stiamo a fare qui”, il tono da Milanese Imbruttita della signora seduta al tavolino di un bar contrasta con il suo look distinto o forse non dovrei lasciarmi influenzare dall’apparenza. Perché l’imbruttimento o abbrutimento è uno stato mentale. Una donna attraversa il viale lontano dal semaforo, si ferma un attimo sullo spartitraffico e il vento le gonfia il vestito corto al ginocchio, poggiato su una quinta di reggiseno, e lo trasforma in una vela nera, su cui manca solo il simbolo dei pirati. All’arrembaggio! Insubordinazione. Riot. I Meganoidi sono tra noi, i Signori Grigi si fumano il nostro tempo (e cervello). A una minoranza è chiaro che un uso distorto delle tecnologie allo scopo di ottenere un istupidimento delle masse ci rende manovrabili, senza particolari sforzi. Ti do la pay TV, un buon campionato di calcio, la libertà di dire quello che vuoi sui social (ma attenzione, se occupi una posizione pubblica in qualche misura, perché se esageri potresti perdere il lavoro) e devi essere contento. Ti distraggo con notizie che ti distolgano dai veri argomenti di cui ti dovresti preoccupare e voilà: ecco dei capri espiatori perfetti, pronti ad attirarsi addosso l’insoddisfazione che per mille cose ci portiamo dentro. Andy Warhol previde che ognuno, in un futuro, sarebbe stato famoso per 15 minuti. In realtà, ai tempi nostri, per molto meno, dato che bastano pochi secondi per leggere una frase sui social. A che prezzo, però? Spaventa l’aggressività che emerge da certi commenti postati da gente qualunque, che esprime tutta la propria frustrazione scagliandosi contro le opinioni altrui, soltanto perché è nella condizione di poterlo fare. Colpisce pericolosamente, come il potere in mani ignoranti, impreparate a gestirlo. Pare che la nostra soglia di attenzione, allo stato attuale, si limiti a 8 secondi. Un pesce rosso riesce a concentrarsi per 9. Scoprirlo mi ha lasciata allibita, ma per niente stupefatta. Siamo bombardati da stimoli che provengono da ogni direzione, tanto da non riuscire a gestirli uno alla volta e da finire per perderci qualche pezzo. Il problema è che questi frammenti vengono sottratti a una visione d’insieme, che molto spesso non riusciamo più ad avere. Riuscite a vedere quanto vi sia uno schema in tutto questo? Quello che invece non vedo, purtroppo, è il sintomo di un risveglio generale, che ci sproni a riprenderci le nostre ore risucchiate dalle distrazioni tecnologiche. Ad abituarci di nuovo a ragionare con la nostra testa. A ricordare ciò che sappiamo, senza rivolgerci subito a Google per un riscontro o per cercare una strada che, se leggiamo cartine e cartelli, siamo benissimo in grado di ritrovare da soli. Ho assistito recentemente a un’accesa discussione in un locale, dopo una conferenza su Zygmunt Bauman. È stato terrificante sentire una millennial affermare ispirata: “Solo la tecnologia può salvarci!” e intuire come ci fosse il nulla, dietro a quella frase ad effetto. Forse però è stato ancora più spaventoso ascoltare un quarantenne attaccarla, senza lasciare spazio per interventi di altri, senza lasciarla provare a spiegare che cosa intendesse veramente con la sua affermazione. Parlava mostrando i denti, pronto a morderla alla giugulare. Che fare quindi? Salviamoci da soli! Sviluppiamo un senso di discernimento. Lasciamo spazio al dialogo con chi ne sa più di noi, eh sì, perché c’è sempre qualcuno più informato e qualificato, che con delicatezza potrebbe aiutarci ad avere una prospettiva più ampia, senza per questo sentirsi superiore. Sarà utopia? Sento un fermento crescere in me, in rapporto a questa società che vedo trasformarsi sotto i miei occhi e non mi piace, mentre ci vivo dentro e cambio io stessa. Sono sicura di non essere la sola. Leggo i segni e inizio a muovermi. Credo nel detto “chi si ferma è perduto”. Disordine, trambusto, moto rivoluzionario. Riot.

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